domenica 12 gennaio 2014

Dopo aver toccato il fondo: una nuova politica europea per la Spagna (2)

Ma tutto questo suppone solo una premessa neanche tanto sufficiente. Di fatto, risulta pericoloso confondere ambedue piani e proclamare senza fondamento –scavando inoltre nel dissenso tra i due grandi partiti che così dannoso è stato– che si può tornare al cuore dell’Europa con un semplice atto di volontà del governo. E’ vero che ci sono stati alcuni bagliori riusciti, come la recente trattativa di bilancio, e progressi positivi quando la posizione spagnola ha beneficiato di alleanze con altri Stati (nel Consiglio Europeo di giugno del 2012) o di più sintonia con la Commissione e la BCE (sempre dalla scorsa estate). La Spagna sta partecipando anche, pur se in modo non molto attivo, ad alcune iniziative collettive per pensare il futuro istituzionale dell’Europa (come il G-11 promosso dal tedesco Guido Westerwelle) ed il suo ruolo nel mondo (come la European Global Strategy promossa dallo svedese Carl Bildt).
Bisogna osare di più. Soprattutto, davanti alla prospettiva delle trattative per creare l’Europa del dopo crisi. Si può misurare in tutti i modi –come si è visto con l’implementazione troncata dell’unione bancaria o con la questione non proprio aneddotica dell’esclusione degli spagnoli dai posti di responsabilità– la Spagna non è oggi ben messa per dare forma alla futura unione economica e monetaria (UEM) o alla unione politica e non sembra capace di guidare nessun sviluppo della politica estera europea.


Elementi strategici per rinforzare la capacità di plasmare della Spagna nell’UE
Non esiste nessun motivo strutturale che condanni la Spagna ad essere poco rilevante in Europa. Pur riconoscendo l’impatto che ha la dinamica politica Nord-Sud su questa perdita di potere, la crisi non è l’unica causa che spiega questa erosione e, allo stesso modo, esiste un margine importante per ripristinarla. In realtà, la Spagna conta a priori con importanti vantaggi di confronto che risultano invidiabili per la maggior parte degli Stati membri. Non si tratta solo del suo peso istituzionale e della sua vasta presenza internazionale, che è il riflesso della sua preziosa condizione di quinto Stato in una UE atomizzata in una trentina di membri, ma della combinazione intelligente che può essere fatta di questo potenziale quantitativo con potenziatori qualitativi, come la proiezione globale alla quale contribuisce sulla lingua, sulla relativa stabilità istituzionale ed amministrativa, l’europeismo convinto –quasi intatto nelle elite e non troppo deteriorato nella popolazione– o la solidità dei suoi grandi partiti nelle due principali famiglie ideologiche del Parlamento Europeo.


In questi momenti è difficile rivendicare qualcuno di questi elementi, ma tutti possono essere capiti come forze se si articolano bene e si integrano in una nuova strategia di politica europea che sostituisca quella esaurita del 2001. Una strategia che, come corrisponde a qualcosa che porti questo nome, rinunci al tatticismo, agli andirivieni programmatici ed all’approccio reattivo. Qui si menzionano 10 elementi che potrebbero aiutare a configurarla:
Sviluppare e difendere una narrativa propria: l’animo rigenerazionista è senza dubbio meglio dell’autoindulgenza, ma non per questo la Spagna deve smettere di avere un racconto proprio sull’integrazione. Soprattutto se questo aiuta ad equilibrare la rigidità intellettuale con la quale, per esempio, la Germania sta affrontando la riforma dell’UEM. La perdita di competitività e l’indebitamento sono, in effetti, due grandi cause che hanno acutizzato fino allo estremo la crisi in Spagna, ma è anche vero che un cattivo funzionamento dell’euro e della BCE tra il 2001 ed il 2012 costituiscono il terzo fattore senza il quale non si capisce il dramma attuale. Bruxelles e, in parte, Francoforte hanno assuntp adesso una visione più ecuanime, ma è necessario che la Spagna sviluppi più pedagogia sulla distribuzione delle colpe e sulle esternalità ingiuste che soffre per l’atteggiamento di alcuni attori centrali che, inclinati verso le proprie preoccupazioni nazionali, minacciano l’interesse generale dell’UE tanto o più della periferia.
Identificare quale Europa conviene alla Spagna: la crisi dimostra che non tutte le strade percorse dall’integrazione risultano positive per la Spagna. E’ necessario definire quella che più interessa ad un progetto nazionale –capace di sopravvivere nella sostanza ai cambiamenti di governo– per sapere verso dove bisogna orientare la trattativa. Negli anni 90 una UE esigente in economia (Mercato Interno e criteri di convergenza) e ambiziosa nella genesi della PESC aiutò ad applicare l’agenda modernizzatrice ed aperta al mondo dei governi spagnoli. Adesso, ad esempio, un’Europa più integrata che prenda sul serio la competitività e la Strategia 2020 può anche rinforzare la steering capacity di uno Stato che vuole trasformare il proprio modello produttivo.
Adattare l’interesse spagnolo a quello generale dell’UE: una volta identificato l’interesse dello Stato bisogna incastrarlo nell’agenda generale. La shaping capacity di un paese membro della misura della Spagna, che può farsi sentire ma non è sufficientemente forte per imporre le sue proposte, dipende dalla sintonia con la Commissione ed il Parlamento. I considerati fallimenti degli ultimi anni (come il sistema di voto post-Nizza e le patenti) sono capitati per non aver saputo associare la visione spagnola con quella europea.
Sfruttare i punti di forza istituzionali spingendo per la federalizzazione: il carattere maggioritario della democrazia spagnola (due grandi partiti, governo monocolore e Parlamento debole) ha effetti negativi indubitabili, ma anche dei vantaggi che bisogna approfittare. La Spagna, che è anche un paese europeista disposto a condividere sovranità, vince in termini relativi quando il Consiglio Europeo, il Consiglio, il Parlamento Europeo e la Commissione assumono potere. Invece, ne esce danneggiata in un’integrazione che riposi in punti di veto nazionali come i parlamenti o i tribunali costituzionali.
Preoccuparsi della qualità dei rappresentanti spagnoli: le energie impiegate nel promuovere candidati spagnoli alle alte cariche europee potrebbero essere destinate, senza rischi di frustrazione, al miglioramento della qualifica degli agenti che rappresentano la Spagna nel quotidiano e che sono, francamente, migliorabili. L’elaborazione delle candidature per le elezioni europee del 2014 è una buona opportunità per cominciare. Nel frattempo, niente impedisce di sostenere i negoziatori al Consiglio con più mezzi e migliori direttive di comportamento.
Coordinare, coordinare e coordinare: la posizione che difende la Spagna nell’UE deve rispondere ad un progetto generale –sostenuto implicitamente dalla grande maggioranza sociale– e le priorità contenute in esso devono essere trasmesse alle politiche settoriali. A tal fine, è necessario rafforzare gli attori ed i fori orizzontali che elaborano e monitorano la politica europea in seno al governo (organi interministeriali, Segreteria di Stato e Rappresentazione Permanente) e tra questi e le comunità autonome (Conferenza di Affari riguardanti la UE) e in Parlamento e al Senato (Commissione Mista).
Curare le amicizie: oltre alla Commissione, bisogna tessere alleanze con altri Stati che bisogna coltivare con empatia, sopratutto nei momenti difficili. Aznar fece male a trascurare l’asse franco-tedesco a partire dal 2001, Rodríguez Zapatero sbagliò anche abbandonando la Polonia nel 2004 e c’è un errore permanente nel non aver creato un asse ferreo con Italia e Portogallo con i quali la Spagna condivide la visione nel 95% dei dossier. Con tanti potenziali alleati, è imperdonabile restare isolati.
Convertire le fragilità interne in punti di forza: quando lo Stato manca di risorse o difende una posizione scomoda su qualche questione, può fare di necessità virtù con un discorso europeista. Se, come succede adesso, deve tagliare in cooperazione o in spesa diplomatica, non deve nascondersi timido ma deve guidare il dibattito sull’europeizzazione delle politiche di sviluppo o lo spiegamento di un SEAE ambizioso. Altro esempio concreto: se in Kosovo è in minoranza e complessato per le proprie tensioni centrifughe, invece di incastrarsi e frustrare gli altri, deve aiutare a risolvere il contenzioso rivendicando che la Spagna sa gestire le tensioni interterritoriali.
Sapere aude: la politica europea della Spagna soffre di un deficit sorprendente di prospettiva e di idee proprie. Bisogna osare e generare pensiero sul terreno della governance economica, la dinamica politico-istituzionale e l’azione esteriore. In confronto con gli altri Stati, i think-tanks dedicati all’integrazione sono pochi e mal dotati, non c’è collegamento con le Università e non c’è quasi niente che meriti il nome di policy unit nel governo o nelle Comunità Autonome nè organi di consulenza ai parlamentari.
Non perdere la cittadinanza: nella situazione di delegittimazione generale della politica e di perdita di fiducia nell’Europa come conseguenza dell’austerità, risulta molto pericoloso sfruttare l’immagine di Bruxelles come quella che impone i tagli. Sia con il proposito di deviare la lamentela (blame shifting) o per suggerire che i tagli si potrebbero evitare fuori dall’UE, i discorsi populisti non aiutano. Il governo e l’opposizione devono interrogare i cittadini trattandoli da adulti, spiegando con sincerità e trasparenza le opzioni praticabili, e anticipare le conseguenze di prendere una o l’altra via. Malgrado tutto, c’è margine e può allargarsi se si è più attivi in Europa; non più offesi.


Questi 10 elementi, come corrisponde ad un decalogo, si possono riassumere in due: pensare più in spagnolo ma agire più in europeo. Anche se la Spagna non ha pensato ad un modello globale di integrazione adeguato alle sue preferenze strategiche nazionali e genera poche idee per conto proprio, si comporta stranamente in modo tattico ed a breve termine su molte questioni concrete dove manca di attitudine europea. Deve fare proprio il contrario: non accettare acriticamente il grande pensiero che producono gli altri e, invece, agire senza egoismo inseguendo attivamente gli obiettivi che abbia definito come europei.


Conclusioni: Dopo anni di lenta diseuropeizzazione –con una perdita correlativa di influenza a Bruxelles– la Spagna non solo debe ricollocare nel nucleo del proprio progetto nazionale il processo d’integrazione ma deve osare e co-guidarlo. Malgrado le apparenze, la estrema difficoltà che attraversa il paese non è l’unica nè la principale causa che le impedisce di esercitare il protagonismo che potrebbe corrisponderle come Stato medio-grande e che, in un certo qual modo, godette durante il decennio dei 90. Fu piuttosto l’autocompiacenza generata dagli anni di crescita che portò, a partire dal cambio di secolo, a disattendere gradualmente l’UE come riferimento per il proprio programma politico, economico o di azione esteriore.


La crisi del debito è servita affinchè la Spagna si renda conto amaramente della trascendenza che continua ad avere il fattore europeo nel suo destino. Tuttavia, dal 2010 sta dimostrando che torna ad essere decision-taker, non ha saputo diventare anche decision-maker e ubicarsi all’avanguardia dei dibattiti sulla nuova governance dell’euro o gli sforzi per convertire l’UE un attore globale. L’esempio proporzionato da altri paesi con meno peso obiettivo (come i Paesi Bassi, la Polonia e la Svezia) o che sono stati anche molto colpiti dalla crisi (come l’Italia di Monti e perfino l’Irlanda) dimostra che l’autorità di ogni membro si misura, in realtà, dalla capacità di pensare a delle proposte attrattive per tutta l’Europa e per creare alleanze con altri Stati e con le istituzioni comuni.


La buona notizia è che se la Spagna decidesse di dedicare più intelligenza e volontà politica al processo d’integrazione dispone di diversi vantaggi comparativi che permetterebbero presto un ricollocamento come socio influente. La cattiva è che, al momento, non ci sono indizi chiari del desiderio di abbandonare il basso profilo e disegnare una strategia per i prossimi anni. Se c’è qualcosa di peggio del “toccare fondo” è il non sapere cosa fare per risalire.



Ignacio Molina

Ricercatore principale di Europa del Reale Istituto Elcano e docente di Scienze Politiche dell’Università Autonoma di Madrid

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