domenica 29 settembre 2013

Si rafforza il legame tra Alghero e la Catalogna

Si rafforza il legame tra Alghero, Barcellona e la Catalogna: firmato l'atto di gemellaggio tra il Parco del Garraf e il Parco regionale di Porto Conte.Un suggestivo percorso via mare in battello per ammirare le bellezze naturali del Parco regionale di Porto Conte e dell'Area Marina protetta di Capo Caccia – Isola Piana e la liberazione nelle acque antistanti la torre del Bollo, nei pressi di Cala Dragunara di un esemplare di tartaruga marina "Caretta caretta", hanno aperto il protocollo di appuntamenti istituzionali per la firma del gemellaggio tra il Parco del Garraf e il Parco regionale di Porto Conte.

"Questo atto di gemellaggio in chiave ambientale e di promozione del territorio naturale- ha detto il Sindaco Lubrano parlando rigorosamente in algherese- è la dimostrazione del legame forte che esiste tra Alghero e Barcellona e naturalmente tutta la Catalogna. Un legame prima di tutto linguistico e storico culturale, ma che oggi sempre di più trova sinergia in numerosi altri ambiti da quello turistico a quello enogastronomico e non ultimo, come in questo caso, nell'ambito della tutela e salvaguardia ambientale dei luoghi. Luoghi naturali che trovano tanti punti in comune come nel caso del nostro parco di Porto Conte e quello del Garraf."

Dello stesso avviso l'intervento del presidente catalano Salvador Esteve che ha rimarcato lo splendido rapporto di collaborazione che esiste ormai da decenni con la città catalana di Sardegna e che sempre di più si sta ampliando sotto ogni ambito. "Sono rimasto piacevolmente sorpreso della straordinaria accoglienza avuta e dello splendido viaggio in battello che ha consentito alla delegazione di apprezzare le bellezze naturali di Alghero e il meraviglioso affetto che la gente di Alghero nutre per la Catalogna. Sono certo questa collaborazione porterà meravigliosi frutti".

Il protocollo di gemellaggio si inserisce poi in un accordo d'intesa più ampio che vede la Federparchi italiana, Legambiente, la fondazione Symbola e a livello locale Obra Cultural de l'Alguer.
 
Redazione 'Alghero Eco' Nella Foto: Stefano Lubrano e Salvador Esteve

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sabato 28 settembre 2013

Call their bluff (Mostrino le loro carte)






L’indipendenza catalana è possibile e, a giudicare dagli studi di opinione pubblica più recenti e la mobilitazione cittadina di massa pro-indipendenza della Via Catalana, è l’opzione di futuro con più probabilità di diventare realtà. Si può capire facilmente che nessuna autorità spagnola non si dedicherebbe a discutere dei presunti inconvenienti dell’indipendenza catalana se lo Stato catalano non fosse uno scenario pienamente fattibile.


La previsibile vittoria del “Si” in un referendum di autodeterminazione –o la vittoria indipendentista in elezioni plebiscitarie– dovrebbe intendersi come un inequivocabile mandato democratico per iniziare i cambiamenti strutturali necessari per stabilire un Stato catalano operativo. Conseguentemente, la transizione verso l’indipendenza –propriamente detta– avrebbe inizio il giorno dopo aver manifestato il mandato sovranista del popolo catalano. Dunque, se il referendum per l’indipendenza avesse luogo nel settembre del 2014 e, tenendo conto degli studi realizzati dal governo scozzese, sono da prevedere circa 16 mesi di trattative con lo Stato spagnolo e l’Unione Europea per determinare la meccanica indispensabile e per garantire il trasferimento di sovranità richiesta per il funzionamento del nuovo Stato catalano.


Considerando l’ostruzionismo delle elite centrali spagnole negli ultimi 10 anni di trattative sull’auto-governo catalano, l’endemica tendenza all’autoritarismo e la paura a scatenare un effetto domino in altre giurisdizioni (es. Euskadi), prevediamo un’opposizione tenace di Madrid all’inizio di questi summit. Pertanto, anticipando la mancanza di cooperazione spagnola, le trattative si potranno produrre con la mediazione e la pressione dell’Unione Europea (UE).


Si può sentire legittima perplessità di fronte allo scenario presentato tenendo conto delle dichiarazioni dell’on. Joaquín Almunia e di altri rappresentanti della Commissione Europea sulle conseguenze legali dell’indipendenza catalana. Ciò nonostante, gli avvisi dati dalla Commissione sono un bluff ed hanno una tripla natura: 1) vogliono evitare di attizzare altri movimenti indipendentisti in altri stati dell’UE; 2) rispondono alla preghiera del governo spagnolo fatta agli altri stati europei dopo aver constatato la perdita di autorità morale spagnola di fronte alla maggioranza dei cittadini catalani; e 3) pretendono scoraggiare gli indecisi più europeisti.


Mentre i catalani possiamo sperare che l’Europa accetti la nostra volontà democratica, dobbiamo essere abbastanza maturi da sapere che l’UE non si dedicherà a fomentare un cambiamente di “statu quo” interno. Di fatto, in altre occasioni precedenti, l’Europa è arrivta ad affermare tassativamente che non avrebbe riconosciuto dei nuovi Stati creati a partire dalla disintegrazione de uno Stato plurinazionale; eppure, la Slovenia e la Croazia oggi sono membri di pieno diritto dell’Unione.


Sebbene l’alternativa d’includere lo Stato catalano –6a. zona industriale più importante d’Europa– nell’Associazione Europea di Libero Commercio (AELC) –European Free Trade Association (EFTA) in inglese– rimarrebbe una prospettiva inmune ad un veto spagnolo e garantirebbe la libera circolazione di merci e capitali tra la Catalogna ed il resto di Europa –chiave per proteggere gli interessi francesi e tedeschi nel nostro Principato– lo scenario dell’EFTA è da considerare, solamente, come una semplice controproposta di pressione durante il processo di trattativa tra lo Stato spagnolo e le nuove autorità catalane. Di più, una soddisfacente integrazione catalana nell’EFTA potrebbe essere controproducente per la stessa UE perchè, potenzialmente, favorirebbe la disintegrazione politica ed incentiverebbe altri movimenti euroscettici dell’Unione.



Se adottiamo una prospettiva consistente nella Realpolitik, nè lo Stato spagnolo –incapace di affrontare in esclusiva il pagamento del proprio debito– può arroccarsi durante le trattative di secessione catalana, e nemmeno l’UE può permettersi la perdita delle Stato catalano, il più ricco dell’Europa meridionale e destinato ad essere un contribuente netto alle casse dell’Unione. E ancora, con un mandato democratico inequivocabile, il caso catalano evidenzierà una doppia realtà: 1) La Catalogna rimane il paese dello Stato spagnolo più omologabile ai valori politici del resto dell’Unione come si sta dimostrando il pacifico e costruttivo processo sovranista; e 2) l’UE, come difensore del metodo democratico per risolvere i conflitti, non può accettare la prigionia di una nazione contro la sua volontà, in uno Stato coercitivo ostile culturalmente e che minaccia con penalizzazioni economiche future.


Ringrazio Aleix Sarri, assistente dell’on. Ramon Tremosa deputato del Parlamento Europeo, per la preziosa analisi di questo articolo.


Agustí Bordas
El Singular Digital .23/09/2013

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giovedì 26 settembre 2013

Indipendenza della Catalogna, il sostegno della Lega Nord alla Camera Italiana


I deputati della Lega Nord si sono presentati nell'Aula della Camera italiana indossando sotto la giacca una maglietta con la bandiera per l'indipendenza della Catalogna. "Si tratta di una espressione di solidarietà - spiega Massimiliano Fedriga". “”Le abbiamo indossate oggi” – ha spiegato all’Adnkronos Nicola Molteni – “in occasione della Diada, festa nazionale catalana che vedrà centinaia di migliaia di catalani impegnati in una catena umana di 400 km per chiedere un referendum sull’indipendenza della regione di Barcellona entro il 31 maggio”.
Per Matteo Salvini, vicesegretario federale della Lega: “Se oggi le nostre preghiere vanno alle vittime del tragico attentato a New York di 12 anni fa, il nostro sostegno e ammirazione va a questo popolo, che pacificamente sta lanciando un messaggio di libertà all’Europa e al mondo: con il sostegno della gente, come diceva anche il nostro professor Gianfranco Miglio, si puo’ fare di tutto: cambiare il governo, sostituire la bandiera, unirsi a un altro paese, formarne uno nuovo. A livello europeo, il presidente Arthur Mas e tutta la dirigenza politica Catalana, avra’ la Lega al loro fianco nel sostenere la richiesta di poter indire un referendum ufficiale e legale per decidere se continuare o meno ad essere parte del Regno di Spagna”.

Video ANSA

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mercoledì 25 settembre 2013

Né per la lingua né per i soldi


L’altro giorno ho parlato con un giornalista norteamericano che si è interessato alle notizie che provengono dalla Catalogna. Con sincerità mi ha spiegato che non sapeva molte cose del nostro paese, ma che si era documentato parecchio prima di arrivare. Il suo obiettivo –in base a quello che mi ha detto - è quello di capire i motivi “per cui una parte di cittadini spagnoli vogliono smettere di esserlo”. Lui lo ha espresso in questa maniera ed io ho specificato che non si trattava di respingere o sottovalutare nessuna identità, ma del semplice fatto di un popolo che può esercitare la democrazia.

Una volta entrati in materia, il giornalista americano ha cominciato a parlarmi di quello che la sovranità chiama “saccheggio fiscale” e ho dedotto che aveva ricercato le cifre basilari. Con i dati alla mano, mi ha detto quello che in molti sappiamo già: il deficit strutturale catalano è del 8’5% sul PIL catalano e rappresenta circa 16.500 milioni di euro negli ultimi tre anni. Aveva anche studiato come la solidarietà interterritoriale abbia effetti sulla Catalogna, che perde 7 posti una volta che si livellano le diverse autonomie, per colpa della mancanza del principio d’ordinalità. Il paradosso – ho aggiunto io – è che le comunità che creano meno richezza sono quelle che finiscono per avere più risorse per abitante rispetto a quelle che creano più richezza.

A quel punto è rimasto  a pensare, mi ha chiesto del tentativo fallito del nuovo patto fiscale e ha detto, soddisfatto: “adesso capisco: questo movimento per l’indipendenza catalana è un fatto di interessi, come succede in Italia con la Lega Nord”. Sul momento, ho detto che, se gli argomenti economici e fiscali erano molto importanti in questo movimento di sovranità e che avevano convinto molte persone, sarebbe un errore giustificare il movimento soltanto per questo fattore. C’è bisogno di andare più lontano, ho detto.

L’americano ha sorriso e mi ha mostrato altri documenti. A partire da quel momento, mi ha fatto una sintesi abbastanza corretta della storia della cultura catalana, con riferimenti a “El Tirant”, il monastero di Montserrat, il rinascimento, l’immersione della lingua nelle scuole e la creazione di TV3. Nel suo iphone aveva canzoni di Raimon, Lluís Llach, Sopa de Cabra e Manel, di cui non capiva niente ma gli piacevano molto. Qualcuno gli aveva dato – lo aveva su l’ipad – un episodio della serie di TV Dallas doppiato in catalano e un frammento del film “Pa negre”.

Lui continuava a sorridere: “Forse non mi sono spiegato bene prima, volevo dire che i soldi sono determinanti, ma so che l’ identità della Catalogna si basa su una cultura e una lingua diversa da quella spagnola”. Io ascoltavo affascinato. Poi ha parlato del ministro Wert e delle occorrenze del governo aragonese, perché mi voleva dimostrare che sapeva tutto e alla fine disse: “Capito, il movimento per l’indipendenza è una cosa tra lingua e cultura, si deve evitare che spariscano, un po’ come in Quebec”. Lui pensava che, questa volta, aveva detto bene ma io ho detto che: era evidente la base culturale del nazionalismo catalano, ma la gente non vuole separarsi solo per la protezione culturale.

Il giornalista non sorrideva più. Se non erano né i soldi né la lingua, cos’è è quello che muove una parte importante dei cittadini catalani a volere un referendum? Mi ha guardato come un giocatore di Poker e ha buttato il suo asso in tavola. Sorrideva un’altra volta: “Credo che adesso lo capisco: il movimento per l’indipendenza si tratta di potere. L’obiettivo è quello di avere una bandiera all’ONU, avere ambasciate, parlare a Bruxelles, dire che Barcellona è capitale di uno Stato e...” l’ho interrotto, e con gentilezza ho detto che non era nemmeno quello. Per capire l’attuale momento della Catalogna, doveva considerare una dimensione che nessuno diceva mai però che era quella più importante.

La sovranità – ho spiegato mentre lui lo scriveva – è, sopratutto, una causa morale. Questo significa che nasce da affermare che la catalanità è stata ed è, per i poteri formali e non formali spagnoli, un modo anomalo e difettoso di spagnolità. Se la catalanità è una identità sospettosa dentro la Spagna, si deve scioglere, annegare e soprattutto escludere da qualsiasi posto di potere. Pochi anni fa un’ azienda catalana su un’altra disse “meglio tedesca che catalana”. Il catalano è sempre colpevole di non essere uno spagnolo autentico, anche se non è nazionalista. Il giornalista americano non credeva quello che stavo dicendo. Ho aggiunto che quello tra i baschi e gli spagnoli non c’entrava, perché era chiaro che – ad esempio – nessuno discute il concerto fiscale di Euskadi e Navarra.

La sovranità catalana è una causa morale. Si nutre di argomenti economici, culturali e politici che offre Madrid ogni giorno, ma va tutto più lontano. È una causa morale perché è correlata con la necessità di non dover dare spiegazioni a tutti su quello che siamo, come se fossimo bambini. Chi non capisce questa dimensione profonda del conflitto non potrà mai capire quello che muove migliaia di catalani e catalane. Il visitante si che capì il concetto.


 


Francesc-Marc Álvaro

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martedì 24 settembre 2013

Conseguenze della Guerra di Sucessione: la storia di 5000 barcellonesi obbligati ad abbandonare le loro dimore







“Tra il 1717 ed il 1718 fecero scomparire il 17% della superficie urbanizzata della Barcellona di allora, fatto che avrebbe comportato un grado di distruzione ancora più grande rispetto alla propria guerra”. L’artista Frederic Perers spiega come renderà omaggio alle 73 famiglie obbligate a lasciare le loro case. 

1. Cosa vedranno le persone che visiteranno i dintorni del Mercat del Born? Lo hai fatto tu da solo, hanno collaborato con te? Fino a quando si potrà vedere “La Ribera onora la Ribera”?

Vedranno settantatre cognomi appesi sui balconi delle facciate rivolte verso il mercato, lignaggi che corrispondono alle settantatre famiglie che abitavano nelle case trovate nello scavo. Rappresentano simbolicamente i cinquemila barcellonesi che, costretti dalle autorità borboniche, dovettero lasciare casa per permettere la costruzione di una fortezza militare: la Cittadella. La Ribera onora la Ribera è un progetto personale fatto con la partecipazione imprescindibile degli attuali vicini e potrà essere visto fino al giorno dopo la Diada (11 settembre).

2. Cosa capitò esattamente a migliaia di barcellonesi del quartiere della Ribera nel 1714? Quale impatto ebbe per la città?

Nel settembre del 1714, alla fine della Guerra di Sucessione, Barcellona era rimasta sconfitta ed occupata dalle truppe franco-castigliane. Con il decreto di Nuova Pianta, Filippo V aboliva le istituzioni della Catalogna ed imponeva l’organizzazione politica castigliana. Tuttavia, la repressione di Filippo V contro la capitale catalana non si fermò qui. Finita la guerra, uno dei primi propositi dei vincitori fu la costruzioni di due fortezze un modo da dominare i barcellonesi e togliere loro dalla testa qualsiasi tentativo di ribellione futura. La prima, che doveva essere posizionata sui cantieri navali, non arrivò a concretizzarsi. La seconda, doveva collocarsi verso il fiume Besòs, vicino il baluardo di Santa Chiara, ed ebbe delle brutali conseguenze per il Quartiere di Mare. Iniziata nel 1716, la fortezza richiedeva un grande spazio davanti libero di edifici, fatto che comportò un grado di distruzione maggiore della propria guerra.

Tra il 1717 ed il 1718 avvennero le demolizioni che avrebbero creato il grande piazzale. Si colpirono, in un solo colpo, un gran numero di strade e di diversi quartieri e, in due anni, scomparve il 17% della superficie urbanizzata della Barcellona dell’epoca.

I proprietari, alcuni dei quali avevano già ricostruito i danni causati dall’artiglieria borbonica, furono espropriati senza alcun indennizzo e obbligati a demolire i loro propri immobili. Circa cinquemila vicini –la stessa popolazione che avevano allora alcune città come Vic o Girona- dovettero andare via, il 70% dei quali verso i paesi vicini. 

Convertita la zona in un immenso piazzale, non fu ricostruita fino alla fine del secolo successivo. Nel 1869 i terreni della Cittadella furono restituiti alla città e, successivamente, l’architetto Fontserè avrebbe progettato il parco, il mercato e la ri-urbanizzazione della zona, dando al quartiere l’attuale aspetto.

3. Come è sorta l’idea di omaggiare quei barcellonesi?

Alla fine del 1999 ho installato il mio studio nella via della Ribera, praticamente di fronte a una delle porte laterali del mercato. All’interno, nel 2001 ebbero inizio gli scavi che avrebbero scoperto la Barcellona degli inizi del secolo XVIII. Dal balcone di casa mia ho potuto seguire giorno dopo giorno l’evoluzione di questi lavori, che rendevano sempre più visibili le vestigia della Barcellona antecedente all’occupazione borbonica.

Nell’anno 2003, in occasione della Diada, TVC aveva trasmesso il documentario El Born, un vincolo con il passato, diretto da Jordi Fortuny e Marina Pi. Che io ricordi, quella fu la prima volta che ebbi notizia della tragedia vissuta in quel quartiere pochi anni dopo l’assedio del 1713-1714, e che mi furono date delle cifre di quella barbarie, venendo a conoscenza solo allo di quella catastrofe umana.
Le mie opere partono quasi sempre dal luogo, dallo scenario dei fatti. Inutile dire che la conoscenza della sfortunata vicenda dei riberesi di allora mi motivò enormemente a dare vita ad un memoriale che potesse ridare loro dignità. Quasi fin dal primo momento ho pensato di usare i cognomi di quelle famiglie, ma l’unica persona che me li poteva procurare era lo storico Albert Garcia Espuche, la persona che più conosce la storia di questa città. Garcia Espuche lavorava da anni all’opera che doveva compendiarli, La Città del Born, ma fino al 2009 questo lavoro non vide la luce.
Con la pubblicazione e l’ottenimento dei cognomi eravamo a metà del’opera perchè ancora dovevamo capire quale grado di empatia con il progetto si sarebbe ottenuto tra i vicini. La Ribera onora la Ribera ha subito diversi rinvii, e finalmente, alla fine del 2012 decisi di riprendere il progetto e portarlo avanti nei primi mesi del 2013, prima dell’apertura del Born Centro Culturale.


                                                          Frederic Perers


4. Perchè le tele sui balconi? Pretende essere un evento di partecipazione cittadina (o, almeno, che coinvolga i vicini?)
 Mi piaceva l’idea di vedere vicini che omaggiavano dei vicini, che gli abitanti della Ribera di oggi fossero gli attori principali di questo memoriale ed i protagonisti del ritorno al quartiere dei cognomi degli espulsi. Separati unicamente dal tempo, i vicini della Ribera di oggi hanno solidarizzato simbolicamente con i vicini della Ribera di ieri. Con una rimembranza austera, serena e silenziosa, senza sigle nè consegne. 

E mi piaceva specialmente che l’installazione usasse i balconi come supporto, il punto più pubblico di una casa, di un ambito privato. Lo spazio dove, senza uscire di casa, la cittadinanza appende ed esprime individualmente il suo impegno, le sue rivendicazioni e le sue gioie collettive. 

Balconi vestiti di cognomi, una forma diretta, visibile, viabile e partecipativa di fare un omaggio.

5. Qual’è l’obiettivo principale?

Da una parte, ricordare i profughi della Vilanova dei Mulini del Mare, la Fusina, la zona del convento di Santa Chiara, la Ribera, il piano di Llull,… quartieri scomparsi, la maggior parte di questi nomi non risultano più familiari agli abitanti della Barcellona del 2013. Sembra incredibile ma tre secoli dopo i fatti, la città aveva in sospeso di rendere omaggio a tanti e tanti barcellonesi che, dopo un assedio brutale ed un’imposizione straniera, furono esiliati dalle loro case.

D’altra parte, che i riberesi di oggi prendano coscienza che si trovano nella zona zero del 1714, nel luogo della barbarie. Gli attuali abitanti della Ribera svolgono le loro vite nelle prime case costruite dopo la distruzione di questa parte di Barcellona. Valeva la pena reincorporare i fatti nella memoria collettiva del quartiere e del paese. 

6. Consideri importante ricordare i fatti del 1714 e le sue conseguenze? Perchè?

Insomma, che ti eliminino dalla faccia della terra a furia di bombe è un fatto che, come paese, non abbiamo voluto mai dimenticare. La nostra “minorizzazione” come popolo ha inizio da quella sconfitta, ma la data tragica è anche l’inizio del duro cammino verso il recupero della pienezza nazionale. E’ stato necessario che ci abbiano creduto molte generazioni per arrivare dove siamo adesso, alle porte del raggiungimento dello stato proprio.


7. Vedi un rapporto tra i catalani del 1714, o alla situazione che si viveva allora in Catalogna, con i catalani ed il paese attuali?

In ambedue i casi ci si trova in un crocevia, in un momento determinante per il futuro del paese. La differenza giace basicamente nella direzione degli eventi. Mentre 300 anni fa la Catalogna sprofondò con la perdita delle libertà nazionali, adesso precisamente siamo alle porte di ridiventare nuovamente proprietari del nostro futuro. La chiave è che allora le cose si sistemavano a botte e vinceva il più forte. Adesso le decisioni le prendono le maggioranze e, se facciamo squadra, saremo quello che vorremo essere, qualsiasi cosa dicano in Spagna o nel mondo.

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lunedì 23 settembre 2013

La cornice legale... la ignorano quando vogliono



La posizione del governo spagnolo, manifestata ieri nuovamente, che rifiuta addirittura di parlare del referendum e che colloca il dibattito in ambito soltanto giuridico, è un’assurdità molto significativa. Tutti sanno che quando si parla di grandi cambiamenti, di cambiamenti storici, la struttura giuridica, qualsiasi struttura giuridica, resta sottomessa alla decisione politica. Lo spiegherò con due esempi molto chiari: il primo, la riunificazione tedesca ed il secondo, molto grave, la nascita dell’autonomia andalusa.
Dopo la caduta del muro di Berlino, la Francia e soprattutto la Gran Bretagna cercarono di impedire o rallentare la riunificazione tedesca, timorosi del suo potere. Ma Kohl fu audace e il 14 luglio del 1990 andò a Mosca intenzionato a convincere il primo ministro societico, Gorbaciov, affinchè permettesse l’unificazione tedesca. Non c’era da scherzare: la RDA era lo stato più prospero del blocco sovietico e uno dei membri del Patto di Varsavia. Si trattava di passare sedici milioni di europei da una parte all’altra. Un fatto per il quale, evidentemente, non esisteva alcuna regola.
Kohl convinse Gorbaciov assicurandogli che la Germania avrebbe pagato il ritiro delle truppe sovietiche e offrendo tanti aiuti finanziari. La Germania non ha mai riconosciuto i costi di quell’operazione, ma si sà che la cifra si aggira sui quaranta milioni di euro.
Con il SI sovietico in tasca, il cancelliere si presentò davanti all’Unione Europea e annunciò l’accordo. Lo fece sottolineando che avrebbe portato avanti questo processo giuridico così enormemente difficile senza il voto di nessun parlamento e senza fare alcun referendum: soltanto con un accordo del governo della RFA. Mitterrand e Thatcher si opposero strenuamente ma alla fine cedettero. Obbligarono Kohl a riconoscere la frontiera con la Polonia come frontiera definitiva, cosa che il leader tedesco non avrebbe voluto fare, e dissero amen. I giuristi fecero il resto del lavoro, convalidando un processo che violava tutte le norme esistenti.
Il secondo esempio è più odioso e me lo ha ricordato questa mattina un lettore: Andalusia. Il 28 febbraio del 1980 l’Andalusia votava uno statuto di autonomia per diventare comunità autonoma mediante l’articolo 151, cioè, votava di essere una comunità storica. La costituzione spagnola indicava --indica ancora oggi!!—che il referendum sullo statuto doveva essere approvato in tutte le province. E non ci riuscirono. Nella provincia di Almeria il sí a lo statuto arrivò soltanto al 42,07% dei voti. E, malgrado ciò, l’Andalusia diventò una autonomia come dall’art. 151. Come?
Semplice. Con l’accordo dei partiti si decise di riformare una legge organica, quella che regola le modalità dei referendum, per lasciare senza alcun effetto le disposizioni della costituzione spagnola. Un’autentica barbarie dal punto di vista giuridico, visto che la costituzione si colloca sopra le leggi organiche. Ma così fu fatto. Fu cambiato l’articolo ottavo della legge dei referendum per dire che se la metà più uno degli elettori di tutta la comunità autonoma ratificava lo statuto, ufficialmente veniva considerato ratificato in tutte le province. 
Siccome non si poteva cambiare la costituzione, per la complessità delle procedure, e la costituzione diceva che bisognava approvarlo in tutte le province, semplicemente scelsero di barare politicamente e cambiare la definizione di “approvato” e di “province”. Matematicamente, Almeria non approvava nulla ma politicamente si, visto che la media totale dell’Andalusia superava il 50%. E non si sono dati la pena neanche di ripetere la votazione.
Esistirebbero oggi la Germania unificata o l’autonomia andalusa in seno alla Comunità Europea se la Spagna o la Germania avessero rispettato la legge sopra tutto e tutti? No, di certo. E tuttavia esistono.
La Spagna può ripetere quanto vuole che bisogna rispettare la cornice legale attuale: se le cose devono passare, passano.
PD: Non a caso, per il caso andaluso abbiamo parlato di referendum.


Vicent Partal
Vilaweb

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sabato 21 settembre 2013

La Fondazione Franco chiede un colpo di stato



L’Entità considera che la Costituzione del 78 appoggia il sollevamento dell’esercito in caso di pericolo dell’unità della Spagna. 
La Fondazione Nazionale Francisco Franco (FNFF) diffonde un articolo intitolato “L’Esercito non può continuare in silenzio davanti alla deriva della Spagna, in mano a mafiosi e traditori” dove si richiede, esplicitamente, un colpo di stato orientato ad assicurare “l’unità territoriale e la integrità territoriale” della Spagna. Il testo, firmato per il giornalista di estrema destra Enrique de Diego, si riferisce a un articolo di opinione del diario Alerta Digital.
Il testo fa ricorso direttamente ai militari spagnoli: “Le Forze Armate sono obbligate a difendere l’unità della Spagna e a prendere il podere. È,  per i deboli di cuore, un obbligo costituzionale, inoltre, è un imperativo d’onore: Le Forze Armate sono al servizio, prima di tutto, della Spagna”.
L’articolo no perde il tempo in distinzioni: “I separatisti sono totalitari e imperialisti, rivendicano zone e zone della Spagna. In Navarra l’ETA. In Valencia e Baleari quelli di CiU e Sinistra”. Si riferisce anche alla Costituzione del 78, nel senso che “la Costituzione situa sotto la protezione delle Forze Armate la difesa dell’unità della Spagna e della sua integrità territoriale. Prima della Costituzione c’è la nazione”.
La FNFF apre la sua web, con lettere di grande formato, con una citazione di  Primo de Rivera: "Noi amiamo Catalogna  come spagnola e perché amiamo Catalogna la vogliamo sempre più spagnola”.
La Fondazione Franco è considerata, legalmente, come un’entità che fa un lavoro di docenza e culturale, per questo le donazioni che riceve sono esente tra un 25% e un 35% di IRPF.

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giovedì 19 settembre 2013

Il parlamento britanico si congratula per il successo della Via Catalana



Parlamentari di tutti i partici del Parlamento britanico, per adesso soltanto senza i parlamentari conservatori, hanno sottoscritto una mozione congratulandosi con i catalani per la Diada e sottolineando il carattere pacifico e democratico della Via Catalana, mentre riconoscono che l’obiettivo di questa “è raggiungere l’indipendenza della Catalogna mediante modalità demotratiche".

Hanno sottoscritto la mozione finora 12 parlamentari appartenenti a cinque partiti politici, tra i quali il partito laburista ed il partito liberaldemocratico, quest’ultimo alleato dei conservatori nel governo britanico. L’hanno firmata anche i rappresentanti del SNP scozzese, del Plaid Cymru gallese ed il Partito Socialdemocratico e Laburista dell’Irlanda del Nord. Seguendo la tradizione parlamentare britanica, questo tipo di mozioni non si sottopongono al voto, ma si lasciano aperte per la raccolta di firme dei deputati.

La mozione è la conseguenza di una proposta del leader del partito ERC (Esquerra Republicana de Catalunya) Alfred Bosch, parlamentare nel Congresso spagnolo, il quale andò a Londra due settimane fa per una riunione con il presidente della commissione esteri del Parlamento, così come altri incontri con parlamentari scozzesi e gallesi, con i quali fu colta l’occasione per parlare del conflitto con Gibilterra. 
Nerea Rodríguez

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Ulteriori sovvenzioni per il maltrattamento degli animali in Spagna



Lontani dal cercare delle feste che siano degne di ricordare e che provochino orgoglio a tutti gli assistenti, nello stato spagnolo sembra che si fomenti un'attitudine irrazionale e medioevale, sempre nascondendosi dietro un concetto tergiversato dalla parola “tradizione” e sempre alimentato con sovvenzioni pubbliche.
Questa volta tocca al paese di Carpio del Tajo, Toledo (Castella la Manxa).



In questo municipio si realizza, ogni 25 luglio, quello che chiamano “

corse di oche a cavallo” in onore a Santiago Apostolo, che consiste nell'appendere delle oche, per le zampe, a delle corde attaccate a delle aste. In seguito passano fantini montando a cavallo e devono intentare di strappargli la testa; avrà il premio chi più teste strappa.

Se oggi si fa con avi già morte (pochi anni fa si faceva con avi vive, costatando nelle immagini che si trattava di una crudeltà indescrivibile), no lascia di essere grottesco ucciderle solo per il divertimento di un insieme di persone. E in modo preoccupante, i genitori inculcano ai loro figli dei valori basati sul sadismo.

Secondo l'Associazione Nazionale per la Protezione e il Benestare degli Animali (ANPBA), nello stato spagnolo si maltrattano, ogni anno e durante le loro celebrazioni, a 60.000 animali. E non solo non sono puniti dalla legge sennò che si sovvenzionano con le tasse di tutti; soldi che potrebbero destinarsi alle necessità basiche per la popolazione, come possono essere la sanità e l’educazione.

Le tradizione è l’insieme delle conoscenze, costumi e credenze che si trasmettono di generazione in generazione per considerarsi di alto valore per la propria cultura. Può darsi che il governo spagnolo avrebbe di ridefinire il significato che hanno attualmente dei concetti come “tradizione” e “cultura”, per il bene della sua società.

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mercoledì 18 settembre 2013

L’estrema destra spagnola colpisce la sede della delegazione del governo catalano della Generalitat sita in Madrid




Militanti dell’estrema destra fanno irruzione con violenza e simboli fascisti nella delegazione della Generalitat a Madrid

Un gruppo di estrema destra spagnola ha fatto irruzione questo mercoledi pomeriggio nella delegazione del governo de la Generalitat a Madrid mentre si stava svolgendo un evento istituzionale con motivo della Diada (giornata nazionale della Catalogna) e hanno aggredito diverse persone, alcune delle quali erano onorevoli parlamentari del Congresso dei Deputati spagnolo, secondo la TV3.

Gli aggressori sono entrati nel Centro Culturale Blanquerna con bandiere spagnole, della Falange e di “Alianza Nacional” e si sono fatti avanti a colpi ed spintoni fino alla cattedra. Lì hanno buttato per terra violentemente la bandiera catalana (senyera) e diverso mobilio mostrando insegne fasciste e spagnole.

Alcuni degli assistenti, tra i quali si trovava il parlamentare di CiU al Congresso Josep Sànchez-Llibre, hanno tentato di fermare gli intrusi e sono rimasti feriti. Il delegato del governo a Madrid, Josep Maria Bosch, è rimasto fermo al suo posto in cattedra in ogni momento.

Durante l'incidente, i falangisti hanno scandito slogan come: “No nos engañan, Cataluña es España”, “Catalanidad es hispanidad” i “Ser español es un orgullo” (Non ci ingannano, la Catalogna è Spagna, Catalanità è Ispanità, essere spagnolo è un orgoglio). Poco dopo, gli aggressori sono andati via continuando a urlare.

Non appena hanno lasciato la sala, gli assistenti hanno percepito un forte odore di gas che ha provocato difficoltà di respirazione a diverse persone trovandosi costretti ad evacuare il locale. Prima dell’evento, era stata notata in sala la presenza di due persone in atteggiamento serio che eludevano le telecamere e che, potrebbero aver avvisato quando l’evento era sul punto di cominciare.

Dopo lo spavento, l'evento si è svolto senza altri incidenti oltre al ritardo, secondo quanto ha confermato la vice-presidente del governo catalano, Joana Ortega, come dichiarato a TV3.

Il delegato del Governo a Madrid, Josep Maria Bosch i Bessa, ha condannato l’aggressione ed ha assicurato che i fatti sono “un tentativo d’impedire il dialogo e la libertà di parola” e ci ricordano i momenti più tristi della transizione.

Bosch ha spiegato che si è trattato di un’azione rapida nel momento in cui stava iniziando a parlare. Secondo ha precisato, i membri dei gruppi di estrema destra hanno danneggiato la porta e si sono fatti strada con violenza contro le guardie private.

Secondo il delegato, l'obiettivo degli assalitori era impedire l’evento e per questo motivo sono andati via dopo aver distrutto alcuni mobili della delegazione. Tuttavia, durante l’irruzione, hanno aggredito l’on. Sánchez-Llibre ed hanno ferito un cameraman della TVC, il quale è stato portato in ospedale.

I servizi di emergenza hanno confermato che il bilancio dell’aggressione è di cinque feriti lievi, uno dei quali è una bambina di 4 anni. Quattro feriti per irritazione oculare ed uno per ematoma sul viso.

Eppure il delegato ha assicurato che si tratta di un “fatto marginale” che ci rinforza nell’idea che l’unica strada possibile resta il dialogo, la manifestazione pacifica, la democrazia, la tolleranza ed il rispetto. “Il dialogo è il cammino, la parola è l’unico modo per capirci ed il rispetto dell’altro è l’unico modo per convivere e raggiungere obiettivi”, ha sottolineato.

La Delegazione del governo catalano presenterà una denunzia per i fatti accaduti.

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martedì 17 settembre 2013

Il “Toro de la Vega”, il dolore che provoca piacere


Sarà il 17 settembre. A Tordesillas, un paese spagnolo, ammazzeranno a colpi di lancia un toro. La vittima è già stata prescelta, si chiama Langosto. L’evento viene chiamato “El Toro de la Vega” e conta con il supporto dei due grandi partiti spagnoli, PP i PSOE.
Durante un’ora, centiania di spagnoli armati con lance rincorreranno l’animale infierendo le loro armi con l’intento di dissanguarlo lentamente. Più di mezzo migliaio di spagnoli inseguiranno il toro a cavallo, ed altre centinaia lo faranno a piedi. Ufficialmente il toro potrebbe essere indultato se riesce a superare alcuni limiti pressochè impossibili. Addirittura, l’anno scorso, la bestia superò questi limiti e due individui continuarono a perseguitarlo senza  ammazzarlo. Gli assassini non rispettano nemmeno le proprie regole autoimposte.
Tra queste regole esiste il divieto di infierire la lancia allo scopo di procurare una morte immediata, mentre bisogna ferirlo procurandogli il più possibile dolore. Un’altra regola è quella che il “vincitore” potrà tenere la coda ed i testicoli dell’animale. Una volta strappati ambedue vengono infilzati nella lancia del vincitore che innalzerà vittorioso tra le urla della gente.
Non ci sono quasi immagini di questo evento perchè il paese impedisce le registrazioni audiovisive ai giornalisti o privati. E lo fanno con attacchi violenti. Le concentrazioni contro questa pratica aberrante sono state organizzate per la maggior parte da gruppi non spagnoli con l’eccezione onorevole del Partido Animalista (PACMA). Ma, generalmente, in Spagna esiste un grande consenso in favore di questo evento. Nel 2012 si sono raccolte soltanto 71.000 firme contrarie in tutta la Spagna.
Soltanto in Catalogna, per esempio, si raccolsero più di 500.000 firme in favore delle selezioni sportive proprie oppure altre 180.000 per l’abolizione delle corride.
Il “Toro de la Vega” fu dichiarata Festa d’Interesse Turistico dallo stato spagnolo nel 1980. La regione Castiglia l’ha protetta come “Spettacolo tradizionale” nel 1999. I propri corrispondenti stranieri nello stato spagnolo hanno criticato apertamente quello che la Spagna considera una “festa” ma, come dice Martin Dahms del Berliner Zeitung “Vogliamo troppo bene alla Spagna per riuscire a scrivere su questa barbarie”. Tacere su un argomento come questo non è essere imparziale, ma è favoreggiamento di odio e di crudeltà. Per questo bisogna rompere il silenzio. A noi catalani ci risulta sempre più difficile condividere uno stato con esseri umani capaci di queste atrocità.

Jordi Vàzquez
@JordiVazquez
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domenica 15 settembre 2013

Rajoy risponde alla lettera del presidente Mas esigendo «rispetto della cornice giuridica»






Il presidente spagnolo non allude mai direttamente alla consultazione

Il presidente del governo spagnolo, Mariano Rajoy, sabato pomeriggio ha trasmesso al presidente della Generalitat, Artur Mas, la lettera di risposta a quella previamente inviatagli (nel mese di giugno scorso) sollecitando il permesso per organizzare una consultazione sul futuro della Catalogna.

In nessuno dei paragrafi, Rajoy ha rifiutato esplicitamente la consultazione –che menziona soltanto all’inizio del testo. Il mandatario spagnolo offre a Mas "dialogo senza data di scadenza" ma esige "lealtà istituzionale" e rispetto della "cornice giuridica" che "a tutti protegge e vincola", specialmente "a quelli che esercitiamo responsabilità di governo".

Rajoy avverte anche che i vincoli che mantengono uniti i cittadini dello Stato non si possono separare senza "enormi costi affettivi, economici, politici e sociali".

Testo completo della lettera di risposta di Mariano Rajoy a Artur Mas, diffusa anche da Europa Press


Caro President:

In risposta alla Vostra lettera nella quale esponete la necessità di affrontare un processo di trattativa per indire una consultazione in Catalogna, e senza pregiudizio dell’esaustiva analisi che richiede il rapporto giuridico e politico che ci avete inviato posteriormente, manifesto la mia opinione rispetto alle questioni poste.

Sono sempre stato –e credo di averlo dimostrato- una persona compromessa pienamente con il dialogo come modo per risolvere le differenze politiche o di qualsiasi altra indole.

Questo compromesso con il dialogo acquista il suo vero senso dalla esigibile lealtà istituzionale e dal rispetto della cornice giuridica che a tutti protegge e a tutti vincola, specialmente a quelli che esercitiamo delle responsabilità di governo. Da parte mia, il dialogo non ha data di scadenza quando si tratta di dare risposta all’interesse generale degli spagnoli e, quindi, di tutti i catalani.

In questo senso, considero che il miglior servizio alla legittimità democratica da Lei invocata sia precisamente rispettare questa cornice giuridica nella quale i governi trovano il proprio fondamento e legittimità ed i cittadini trovano la garanzia della convivenza e la concordia. Sono convinto della straordinaria rilevanza che la Catalogna ha per l’insieme della Spagna e della ricchezza, pluralità e singolarità della società catalana. Penso, inoltre, che i vincoli che ci tengono uniti non possono essere separati senza enormi costi affettivi, economici, politici e sociali. E naturalemente, voglio anche trasmetterLe la ferma convinzione del mio Governo che dobbiamo lavorare per rafforzare questi vincoli e fuggire dallo scontro. Dobbiamo farlo dalla lealtà reciproca e dalla promozione della corresponsabilità in entrambe direzioni.

Convinto che insieme vinciamo tutti e separati tutti perdiamo, La invito ad esercitare responsabilmente la nostra funzione di governanti democratici con lealtà verso i cittadini e le istituzioni che rappresentiamo in questi momenti di difficoltà economica e sociale che soffre la nostra società.

Dal profondo affetto che sento per la società catalana nel suo insieme ed il rispetto istituzionale alla Generalitat della Catalogna che Lei rappresenta oggi, rimango a disposizione per lavorare congiuntamente ed offrire in questo modo la miglior risposta alle necessità di tutti i cittadini.

Cordialmente,

Mariano Rajoy Brey



Fonte: Nacio Digital

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La Via Baltica vinse la Rivoluzione Cantata








La grande catena umana del 1989 tra Vilnius, Riga e Tallin, la Via Baltica, che oggi stesso compie 24 anni, fu una tappa fondamentale per riavere l’indipendenza della Lituania, Lettonia e Estonia. Così potente che non pochi libri di storia hanno ignorato il vero nome con il quale quei paesi chiamarono la loro rivolta: La Rivoluzione Cantata. L’idea fu promossa dagli attivisti che tra il 1987 e il 1991 – anni culminanti della perestrojka – organizzarono concerti nei quali si cantavano canzoni popolari dimenticate o inni vietati alternandoli ad un repertorio rock, a volte più duro altre più morbido, ispirato a Metallica, Supertramp, Dire Straits, AC/DC e Iron Maiden.

Dietro ai concerti –alcuni ben organizzati e altri improvvisati- si muoveva e si mobilitava una società civile disposta ad approfittare dello sfascio dell'URSS per frenare la “russificazione” imposta dal 1945 e per recuperare le indipendenze sequestrate dal patto tra Stalin e Hitler. Gli attivisti si trovano tra quello che, ancora oggi, nel mondo post-soviètico viene chiamato intellighenzia. Gente istruita -membri di associazioni di scrittori, musicisti o artisti- e compromessa con i diritti umani. Quelli che dal 1975 sfidavano il potere sovietico e osavano raccogliersi sotto le parole della Lettera di Helsinki, firmata e pubblicata controvoglia dal Cremlino nel 1975.

Le riforme democratiche di Gorbaciov tra il 1987 e il 1988, specialmente la glasnost (trasparenza informativa), fecero sorgere nel Baltico centinaia di gruppi denominati “gruppi informali di discussione e dibattito”. Nuclei civici che piano piano si coordinarono fino a creare un ente organizzato, il fronte popolare, al quale si unirono infine i settori più riformisti ed intelligenti del Partito Comunista, coscienti che si trovavano di fronte ad un movimento storico inarrestabile.

Il Fronte Popolare in Lettonia e in Estonia, e il Sajudis (movimento) nella Lituania. Tutti e tre diedero sfornarono nuovi leader sociali e politici -una miscela di nazionalisti, liberali e socialdemocratici- che approfittarono delle elezioni del mese di marzo del 1989, le prime dell’URSS con una pluralità di candidati dal 1917, per occupare una manciata di seggi nel Congresso sovietico.

Una mobilitazione che creò dei leader.
A differenza di quanto è successo a casa nostra, nel caso baltico la società civile non fu obbligata a spingere la classe politica perché fu precisamente la mobilitazione sociale quella che generò la leadership. Della forza baltica rappresentata a Mosca sorsero nomi come Egdar Savisaar, Vytautas Landsbergis, Algirdas Brazauskas e Ivars Godmanis. Arrivarono a presiedere dei governi, ma prima organizzarono la Via Baltica del 23 agosto 1989. E, dopo qualche mese, nel marzo del 1990, raggiunsero maggioranze più che assolute nelle elezioni legislative delle tre repubbliche.

Subito dopo i Parlamenti autonomi fecero dichiarazioni di sovranità, proclamandosi soggetto giuridico e politico, e fissando una data per i referendum di autodeterminazione: la Lituania lo fece il 9 febbraio 1991 mentre Lettonia e Estonia il 3 marzo dello stesso anno. Qualche settimana prima -a partire dal 13 gennaio 1991- dei paracadutisti e carri armati sovietici che agivano ai margini del commando di Gorbaciov tentarono di stroncare il processo occupando la televisione lituana ed il Dipartimento degli Interni lettone, con un bilancio di quattordici attivisti civili morti.

L’intervento militare fallito non riuscì a far rimandare le consultazioni, dove il sì vinse con un 76% in Lituania, un 74% in Lettonia e un 78% in Estonia. Il conteggio pose fine ai quattro anni della Rivoluzione Cantata. Dopo sei mesi, in agosto del 1991, fallito il colpo di stato militare contro Gorbaciov, le tre Repubbliche baltiche fecero dichiarazioni unilaterali d’indipendenza appellandosi alle leggi internazionali. Tre mesi dopo l'URSS non esisteva più.


Llibert Ferri
@llibertferri

Tra 1987 e 2007 inviato speciale della catena TV3 nell’Europa centrale ed orientale e nell'antica Unione Sovietica

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sabato 14 settembre 2013

La Matematica della Via Catalana


Una delle risposte unioniste all’imponente partecipazione alla Via Catalana di ieri è stata quella della “matematica”. Davvero! Una costellazione di stupidi (guidati dal ministro degli Interni, on. Jorge Fernández Díaz) hanno usato la matematica per minimizzare la quantità di gente che ha partecipato all’evento. Uno degli argomenti è quello della “divisione”. Il ragionamento è il seguente: “se il tracciato della via era di 400 chilometri e ogni persona occupa un metro, nella via soltanto potevano esserci 400.000 persone (400.000 metri divisi per una persona al metro fanno 400.000 persone). Pertanto, nella manifestazione soltanto c’era la quarta parte dei 1.600.000 cittadini che sono stati annunciati dagli esagerati. E’ matematica pura!”. Dopo aggiungono, con tono arrogante e accondiscendente, “Sia chiaro che sono, comunque, tanti e che non voglio sminuire il successo della manifestazione, ma non c’è bisogno di moltiplicare per quattro le presenze”.





Suppongo che tutti avete ricevuto dei tweet e dei messaggi simili nelle ultime ore. Logicamente, affinchè l’argomento di questi illuminati pseudo-matematici possa funzionare, nella catena umana soltanto ci deve essere una persona ogni metro. Ma se si osservano le immagini trasmesse da tutte le televisioni e riprodotte in tutti i giornali si vedrà che ci sono un’infinità di sezioni della catena dove non c’è una sola persona ma una vera e propria agglomerazione di gente. Nella foto allegata qui sopra, ad esempio, si può vedere che la questione di una persona al metro è un’ipotesi audace che NON sembra avere come obiettivo il calcolo del numero reale di manifestanti ma quello di sminuire quello che, senza dubbio, è stato un successo senza attenuanti.

Un altro ragionamento utilizzato dai pseudo-matematici è quello della “sottrazione”: se veramente sono andati alla manifestazione 1.600.000 di catalani, allora significa che in Catalogna ci sono 5.400.000 unionisti (7.000.000 meno 1.600.000). I ministri del PP si sono appropriati rapidamente di tutta questa gente alla quale hanno addirittura battezzato con il nome di “maggioranza silenziosa”.

Questa non è un tattica nuova. Il PP la utilizza da molto tempo: "tutti quelli che non votano gli altri, in realtà volevano votare me", pensano questi illusi. La utilizzarono ai tempi dello statuto e la usano dopo ogni elezione per dimostrare che i risultati ottenuti sono migliori di quanto realmente siano. La verità è che nè quelli del PP nè nessuno può sapere i motivi per cui certe persone non siano andate alla via. Sicuro che ci sono molteplici ragioni. Quello che sappiamo è che appropriarsi dei voti di quelli che non hanno votato o dei manifestanti che non si sono manifestati è una grossolana manipolazione che porta a delle conclusioni sbagliate.

Matematicamente, per dimostrare che la loro teoria è sbagliata bisogna soltanto che ci sia una sola persona che non sia unionista e che non abbia partecipato all’evento. E dunque, la dimostrazione delle falsità del PP sono IO, perché io non sono andato alla via per motivi di lavoro (stavo insegnando a New York). E so di non essere l’unico perché sono rimasto ad ascoltare RAC1 e Catalunya Radio e c’erano molte persone che intervenivano in onda e che erano indipendentiste e nemmeno loro si trovavano alla manifestazione. Pertanto, fate attenzione ad appropriarvi della “maggioranza silenziosa che non è andata alla manifestazione” perché, a un certo punto, a qualcuno non torneranno i conti e si prenderà un bel spavento.

Al posto di dividere e sottrarre, il PP dovrebbe (soprattutto il suo ministro catalano) addizionare. Non ci sarebbe bisogno di speculare su un’eventuale maggioranza silenziosa se chiedessero direttamente alla gente. Con un referendum nessuno farebbe strane operazioni quali sottrarre o dividere. Si potrebbe solo aggiungere. E la domanda è, perché hanno così paura di aggiungere la gente che vuole andare via veramente da questo paese? Perché questo panico verso le urne?



Xavier Sala i Martin
Docente universitario presso la Columbia University

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mercoledì 11 settembre 2013

Un referendum per la Catalogna



'L'Undici di Settembre del 2012, la giornata nazionale della Catalogna, un milione e mezzo di persone si sono manifestate a Barcellona con striscioni che dicevano 'Catalogna, nuovo stato di Europa'. La manifestazione fu espressione pacifica di speranza. Oggi, con lo stesso obiettivo, centinaia di migliaia di cittadini faranno una catena umana lungo la Catalogna.

La storia della Catalogna risale a molti secoli fa, quando le tribu iberiche commerciavano con i greci ed i cartaginesi nella costa mediterranea. Una cultura catalana identificabile si sviluppò durante il Medioevo e si è rafforzata attraverso i tempi, malgrado la perdita della sovranità catalana alla fine della Guerra di Successione spagnola del 1714, e la ripetuta soppressione posteriore del nostro governo, scuole, lingua e valori.

La Catalogna lottò per difendere la Seconda Repubblica durante la guerra civile spagnola del 1936-1939. Ma la democrazia e l'autonomia furono schiacciati e la lingua catalana fu dichiarata illegale, la Spagna subì 40 anni di dittatura brutale con Franco.

Ma nel 1975, alla sua morte, la Spagna si trasformò sorprendentemente verso una democrazia multipartitica, e nel 1978 una nuova costituzione spagnola riconobbe l’autonomia e la lingua della Catalogna ancora una volta. Le istituzioni dell’autonomia catalana si svilupparono con la restituzione della presidenza e del parlamento catalano, insieme al ritorno del catalano presso le nostre scuole.

Ma i progressi non hanno soddisfatto le aspettative catalane. Un’infinità di proposte della Catalogna a Madrid sono state rifiutate immediatamente o respinte da sentenze giudiziarie. Per esempio, nel 2005 il Parlamento catalano approvò un nuovo statuto di autonomia delimitando le competenze che dovevano essere trasferite alla regione. Il parlamento spagnolo lo approvò nel 2006 dopo aver eliminato alcuni elementi chiave. Ciò nonostante, il popolo catalano approvò nuovamente la versione indebolita della legge in in referendum indetto nel mese di giugno del 2006, valutando che era meglio quello di niente. Dopo, nel 2010, il Tribunale Costituzionale spagnolo revocò e riscrisse unilateralmente alcune parti cruciali della lege in un processo che il governo catalano crede sia stato processualmente dubbio.

Malgrado aver fatto delle concessioni finanziarie alla regione basca, le nostre reiterate petizioni di avere un nuovo patto fiscale con Madrid per mitigare l’ingiusto sistema attuale sono state rifiutate una e altra volta. Abbiamo pagato più di quanto ci spetterebbe al governo centrale, per dare sostegno alle regioni più povere della Spagna, ma ciò è andato oltre. La Catalogna riceve meno spesa pubblica pro capite di oltre la metà delle altre regioni spagnole pur contribuendovi molto di più. Inoltre, il governo spagnolo non rispetta i suoi obblighi d’investimento, anche nella loro limitata portata, come richiesto dallo statuto indebolito.

Ci sono molti esempi che hanno portato ai catalani a sentire che si sono esauriti tutti i mezzi possibili di ragionare e di trattare con Madrid e che l’unica opzione rimasta sia la sovranità. Le ultime elezioni parlamentari della Catalogna ci hanno dato il mandato di convocare un referendum sul futuro della Catalogna, come chiesto dalla maggioranza della società e dei partiti politici.

Ci sono cinque forme giuridiche diverse all’interno della legislazione spagnola che permetterebbero di autorizzare un referendum. Il Canada concesse al Quebec il diritto di fare due referendum separati. Recentemente, il Regno Unito ha dato alla Scozia il diritto a decidere il suo futuro mediante un referendum sull’indipendenza l’anno prossimo. Malgrado tutti i nostri sforzi per riuscire ad ottenere questo diritto civile basico, la Spagna ce lo rifiuta.

Ho fatto appello al primo ministro Mariano Rajoy affinchè risponda nel mese di marzo del 2013 al sostegno del 80 per cento del parlamento catalano per la convocazione di un referendum. La richiesta è stata rifiutata. Nel mese di luglio, ho fatto richiesta formale per iscritto per poter indire un referendum. E ancora stiamo aspettando una risposta.

Non vogliamo isolarci. I catalani sono profondamente europeisti e non si immaginano un futuro al di fuori dell’Unione Europea. Una nuova Catalogna sarebbe l’ottava economia più grande dell’Unione e un contribuente netto al bilancio dell’UE. Vogliamo essere un socio europeo solido per rafforzare l’unità politica, la sicurezza e la crescita economica.

Non desideriamo nessun male alla Spagna. Siamo uniti a lei dalla geografia, la storia e la gente perchè oltre il 40 per cento della popolazione della Catalogna ci è arrivata da altri luoghi della Spagna o ha dei legami familiari stretti con lei. Vogliamo essere il fratello della Spagna, in condizioni di eguaglianza. Ciò va oltre i soldi e le differenze culturali. Vogliamo il diritto di avere più controllo sulla nostra economia, la nostra politica, i nostri servizi sociali.

Il miglior modo di sistemare i problemi è quello di eliminarne l’origine. Cerchiamo la libertà di votare. Ogni individuo ha il diritto di sperare questo dal suo governo, oltre ad avere il diritto di condividere equamente i vantaggi. In Europa, i conflitti si risolvono democraticamente, e questo è quello che chiediamo.

Cerchiamo la giustizia e l’uguaglianza per la nostra società diversa. Più del 17 per cento dei 7,5 milioni di cittadini sono stranieri. Ma siamo uniti nel nostro appello perchè ci ascoltino nelle urne.

Artur Mas è il Presidente della Catalogna'
 
 
 























(Articolo completo del Presidente catalano Mas pubblicato nel New York Times il 10 settembre)

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lunedì 9 settembre 2013

Fiera di sentirmi Catalana






Sono un’Italiana “fiera” come dice la celebre canzone di Toto Cotugno, però “adottata” dalla Catalogna dal 29 ottobre 1993. Voglio sottolineare il fatto che, per una Torinese come me, che tutti ci fanno notare il nostro carattere “chiuso”, qui in Catalogna, mi sento a casa mia, ho avuto un’accoglienza straordinaria. Sono fiera delle nostre stupende montagne, del nostro mare, della nostra Barcellona, ma soprattutto della nostra Lingua e della nostra Storia che nessuno ci può negare. Esistono e da molti anni, da secoli e secoli. Conoscere una lingua come il Catalano, del quale sono “fiera” di avere il livello C, è un peccato? Che male fa? Per esperienza posso dire che più lingue conosci più ti è facile impararne un’altra. Sono “fiera” dei nostri “Castellers” (castelli di uomini) che non lasciano indifferenti nessuno, con il loro simbolo di innalzare le Nuove Generazioni, sempre più in alto ... con il rischio di cadere e di farsi male, però tornano a cominciare perché siamo una grande Squadra, un gran Gruppo. Per riassumere sono “fiera” di sentirmi Catalana e se me la concedessero, chiederei la NAZIONALITÀ CATALANA per riunificazione familiare grazie al mio cagnolino che è un “gos d’atura català” (un cane da pastore catalano). Sì, sono fiera di aver avuto l’onore di essere stata adottata dalla Catalogna. Il mio sogno: avere un passaporto catalano, quindi l’11 settembre voglio dire ad alta voce tutto questo!!!


Rita Bocca

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