Domenica 27 settembre si vota per il Parlamento catalano (Parlament
de Catalunya). Elezioni anticipate di oltre un anno, la legislatura
sarebbe finita solo nel Natale 2016, annunciate lo scorso gennaio dal
presidente dell’autonomia catalana Artur Mas – in una irrituale
conferenza stampa coi soci di governo e la presidente dell’Assemblea
nazionale catalana (Anc), motore della mobilitazione civica
indipendentista. Elezioni nate per cavalcare l’onda nazionalista e
convertite, almeno dallo scorso febbraio, quando venne dichiarato
incostituzionale il referendum promosso dalla piattaforma
indipendentista, in un plebiscito sull’indipendenza della regione.
Un
voto che, secondo i sondaggi, confermerà l’egemonia sovranista della
politica catalana ma che, a seconda degli scenari parlamentari che
usciranno dalle urne, ne metterà anche alla prova i fondamenti.
La radicalizzazione indipendentista ha ridisegnato il panorama
politico, rompendo i classici schemi destra/centro/sinistra (seppur in
un contesto in cui forte è l’afflato nazionalista), per rimodellare il
quadro in tre fronti: i nazionalisti, favorevoli a una dichiarazione
unilaterale di indipendenza; i favorevoli al «diritto a decidere» da
parte dei catalani ma non alla secessione; il fronte
nazionalista-centralista e comunque contrario a ogni tipo di
consultazione popolare e modifica dello status quo. Una rottura politica
ma anche della rappresentanza sociale, come dimostrano le
preoccupazioni riguardo più volte espresse dalla Confindustria catalana e
da altre organizzazioni storicamente vicine ai partiti nazionalisti
moderati.
L’arcivescovo di Valencia, Antonio Cañizares, ha addirittura scritto
una lettera pastorale in cui invita tutti i cattolici a «pregare per la
Spagna e la sua unità». Mentre, a sinistra, i socialisti si sono divisi
sulla questione, avvitando il partito nelle lotte intestine e rendendolo
incapace influire sull’agenda politica, e Podemos, come già Izquierda
unida e i Verdi, ha avuto difficoltà a svincolarsi dalle parole d’ordine
nazionaliste che dominano i ragionamenti delle sinistre catalane.
Il fronte indipendentista si presenta con due liste,
Junts pel Sí (JxSÍ) e Candidatura d’Unitat Popular (Cup). La prima è
una coalizione che unisce i partiti che formano il governo regionale,
Convergència Democràtica de Catalunya (Cdc), del presidente Mas, e
Esquerra Republicana de Catalunya (Erc). La Cup è un piccolo partito di
estrema sinistra nazionalista, molto cresciuto recentemente (i sondaggi
prevedono il triplicamento di voti e consiglieri) grazie all’apprezzata
leadership di David Fernández che è riuscito, nel dibattito pubblico
dominato dalla questione nazionale, a attrarre l’elettorato di Erc
deluso dalle politiche di austerità e tagli del welfare portate avanti
dal governo autonomico, pur costruendo con le forze di governo un
percorso comune per arrivare all’indipendenza.
Il secondo fronte comprende il Partit dels Socialistes de Catalunya (Psc),che
candida il segretario Miquel Iceta, reduce da aspri momenti di
conflittualità interna proprio sull’indipendenza, numerosi abbandoni e
risultati elettorali in continua discesa. Poi, ma secondo i sondaggi
sarebbe la prima lista di questo fronte, c’è Catalunya Sí que es Pot
(Catalogna Sì che si può),coalizione formata da Podemos, Iniciativa per
Catalunya – Verds (ICV), Esquerra Unida i Alternativa (EUiA) e Equo –
sul modello della lista Barcelona en Comú che ha eletto la sindaca della
capitale catalana, Ada Colau. Infine c’è Unió Democràtica de Catalunya
(UdC), che prima era alleata di Convergència nella lista Convergència i
Unió (CiU).
Il terzo fronte è composto dal Partido poular (Pp) e da Ciudadanos (C’s),l’altra formazione nuova che sta scompaginando gli equilibri politici spagnoli, questa volta a destra.
Il voto, secondo l’intenzione della coalizione di governo, e i
sondaggi accreditano la scommessa, premierà il fronte indipendentista.
Nell’ultimo anno sono però successe molte cose, dovute sia
all’inasprimento della questione nazionale che al sorgere di nuove
opzioni politiche, e, oltre alla contrapposizione sull’indipendenza,
altri conflitti si muovono tra e dentro le coalizioni. Innanzitutto c’è
stata la rottura di CiU, la coalizione ultradecennale tra i liberali
della Cdc e i cattolici nazionalisti dell’Udc. Il partito guidato da
Josep Antoni Duran i Lleida ha mal digerito l’accelerazione
indipendentista dell’ex alleato e si presenterà con una propria lista e
un candidato, coll’intenzione di intercettare i voti del catalanismo
moderato ostile ad avventurismi. Un altro accesissimo scontro è quello
fra Cdc e Erc per l’egemonia del nazionalismo catalano, provvisoriamente
messo da parte col varo della lista comune ma sempre vivo sotto la
facciata unitaria. Poi c’è il confronto tra i partiti storici, Psc e Pp,
e le nuove formazioni figlie della crisi del sistema dei partiti.
Se i socialisti vedono continuare l’emorragia di voti verso Podemos,
e quindi verso la coalizione di cui fa parte, i popolari catalani
sembrano addirittura travolti da Ciudadanos, la formazione degli
«Indignati di destra» che, secondo i sondaggi, prenderebbe il doppio dei
voti del Pp. Questo il quadro disegnato dagli istituti di ricerca che
però, oltre alla verifica delle urne (alto è il numero degli indecisi e
diversi sondaggisti ritengono che quasi la metà di loro, che potrebbe
mobilitarsi, sia per il no alla secessione, mentre i favorevoli
sarebbero attorno al 20%), merita qualche altra considerazione.
A partire dai nuovi partiti, Ciudadanos e Podemos. I primi sembrano
godere dell’afflusso imparabile dei voti del Pp, Malgrado inciampi e
contraddizioni, l’offerta di un voto alternativo a quello popolari
sembra solidissima nel gradimento degli elettori. Ciudadanos, nata come
formazione di sinistra moderata catalana contraria all’indipendentismo
inizialmente rivolta ai delusi socialisti, promossa da una stampa
intenzionata a limitare la crescita di Podemos, si è rapidamente imposta
come alternativa nazionale allo screditato Pp, ha occupato il nuovo
spazio politico e potrebbe essere il secondo partito. Podemos, invece,
sembra subire una battuta d’arresto. Nella realtà politica catalana, il
non nazionalismo ha frenato i favori di un’opinione pubblica abituata
ormai a pensare la politica in termini nazionalistici.
Anche la scelta della sindaca Ada Colau di non schierare la città sul
fronte indipendentista, come fatto invece da decine di comuni catalani,
è costata qualcosa in termini di gradimento. Una leadership locale poco
contundente e, paradossalmente, la stessa debolezza dei socialisti,
principale serbatoio elettorale per i viola, contribuiscono alle
difficoltà catalane della creatura di Pablo Iglesias. Di contro, proprio
l’irruzione di Podemos sulla scena politica ha messo in crisi il
monopolio del discorso politico da parte nazionalista, imponendo la
questione sociale e un ritorno a una più classica dialettica
destra-sinistra che rompesse, non senza difficoltà, la gabbia in cui si è
chiusa la politica catalana.
I giochi sono dunque fatti, con la vittoria dell’attuale compagine di
governo e la sconfitta non solo della destra ma anche delle sinistre
non nazionaliste? Fino a un certo punto. I sondaggi parlano di una
maggioranza della coalizione di JxSÍ ma non di una certa maggioranza
assoluta. Se la questione nazionale ha dominato il discorso pubblico e i
programmi dei partiti, utilissima per la dirigenza nazionalista
catalana per attenuare l’eco dell’ondata di scandali che l’ha travolta,
questa potrebbe essere messa alla prova dopo il voto. Se non trovasse la
maggioranza assoluta, JxSÍ potrebbe formare una maggioranza di governo
con la Cup ma il pressing di Podemos e della sinistra potrebbe rendere
alla Cup impossibile l’adesione al progetto, sia organicamente che con
un appoggio esterno. Come giustificare davanti a un elettorato sì
nazionalista ma estremamente sensibile alle questioni sociali l’appoggio
a una maggioranza che ha risposto alla crisi con tagli del welfare e
privatizzazioni?
Se le elezioni locali hanno sempre un senso particolare,
ancor più ciò è valido in Catalogna. Non è questo il terreno per un
rilancio del Pp, che vede avvicinarsi le prossime politiche del 25
dicembre con sempre maggiore preoccupazione, né per i socialisti. La
Spagna si conferma come uno dei laboratori politici europei più vivaci,
quello in cui le offerte politiche alternative conseguenti alla crisi
dei partiti si sono presentate da subito non come compagini populiste e
testimoniali ma come forze di governo, senza temere di allearsi coi
partiti, come il Psoe, che pure hanno duramente criticato e per il cui
superamento sono nate. Fornendo strumenti alla cittadinanza e
stimolando, inoltre, la necessità per i partiti storici di ricostruirsi
una credibilità. A livello nazionale la situazione è diversa. Secondo
gli ultimi sondaggi il Psoe sarebbe il primo partito (con neanche il 25%
dei voti) e Podemos il terzo, dietro al Pp e davanti a C’s. In un
quadro estremamente frammentato che renderà necessaria la formazione di
una coalizione di governo. Sia a destra che a sinistra. Ma tre mesi
sembrano un futuro lontanissimo, nell’era del cambiamento della
politica, e ora la parola sta agli elettori catalani.
(Tratto da Ytali.it)