venerdì 25 settembre 2015

Domenica in Catalogna, un salto nel voto

Domenica 27 settembre si vota per il Parlamento catalano (Parlament de Catalunya). Elezioni anticipate di oltre un anno, la legislatura sarebbe finita solo nel Natale 2016, annunciate lo scorso gennaio dal presidente dell’autonomia catalana Artur Mas – in una irrituale conferenza stampa coi soci di governo e la presidente dell’Assemblea nazionale catalana (Anc), motore della mobilitazione civica indipendentista. Elezioni nate per cavalcare l’onda nazionalista e convertite, almeno dallo scorso febbraio, quando venne dichiarato incostituzionale il referendum promosso dalla piattaforma indipendentista, in un plebiscito sull’indipendenza della regione. Un voto che, secondo i sondaggi, confermerà l’egemonia sovranista della politica catalana ma che, a seconda degli scenari parlamentari che usciranno dalle urne, ne metterà anche alla prova i fondamenti.


La radicalizzazione indipendentista ha ridisegnato il panorama politico, rompendo i classici schemi destra/centro/sinistra (seppur in un contesto in cui forte è l’afflato nazionalista), per rimodellare il quadro in tre fronti: i nazionalisti, favorevoli a una dichiarazione unilaterale di indipendenza; i favorevoli al «diritto a decidere» da parte dei catalani ma non alla secessione; il fronte nazionalista-centralista e comunque contrario a ogni tipo di consultazione popolare e modifica dello status quo. Una rottura politica ma anche della rappresentanza sociale, come dimostrano le preoccupazioni riguardo più volte espresse dalla Confindustria catalana e da altre organizzazioni storicamente vicine ai partiti nazionalisti moderati.
L’arcivescovo di Valencia, Antonio Cañizares, ha addirittura scritto una lettera pastorale in cui invita tutti i cattolici a «pregare per la Spagna e la sua unità». Mentre, a sinistra, i socialisti si sono divisi sulla questione, avvitando il partito nelle lotte intestine e rendendolo incapace influire sull’agenda politica, e Podemos, come già Izquierda unida e i Verdi, ha avuto difficoltà a svincolarsi dalle parole d’ordine nazionaliste che dominano i ragionamenti delle sinistre catalane.
Il fronte indipendentista si presenta con due liste, Junts pel Sí (JxSÍ) e Candidatura d’Unitat Popular (Cup). La prima è una coalizione che unisce i partiti che formano il governo regionale, Convergència Democràtica de Catalunya (Cdc), del presidente Mas, e Esquerra Republicana de Catalunya (Erc). La Cup è un piccolo partito di estrema sinistra nazionalista, molto cresciuto recentemente (i sondaggi prevedono il triplicamento di voti e consiglieri) grazie all’apprezzata leadership di David Fernández che è riuscito, nel dibattito pubblico dominato dalla questione nazionale, a attrarre l’elettorato di Erc deluso dalle politiche di austerità e tagli del welfare portate avanti dal governo autonomico, pur costruendo con le forze di governo un percorso comune per arrivare all’indipendenza.
Il secondo fronte comprende il Partit dels Socialistes de Catalunya (Psc),che candida il segretario Miquel Iceta, reduce da aspri momenti di conflittualità interna proprio sull’indipendenza, numerosi abbandoni e risultati elettorali in continua discesa. Poi, ma secondo i sondaggi sarebbe la prima lista di questo fronte, c’è Catalunya Sí que es Pot (Catalogna Sì che si può),coalizione formata da Podemos, Iniciativa per Catalunya – Verds (ICV), Esquerra Unida i Alternativa (EUiA) e Equo – sul modello della lista Barcelona en Comú che ha eletto la sindaca della capitale catalana, Ada Colau. Infine c’è Unió Democràtica de Catalunya (UdC), che prima era alleata di Convergència nella lista Convergència i Unió (CiU).
Il terzo fronte è composto dal Partido poular (Pp) e da Ciudadanos (C’s),l’altra formazione nuova che sta scompaginando gli equilibri politici spagnoli, questa volta a destra.
Il voto, secondo l’intenzione della coalizione di governo, e i sondaggi accreditano la scommessa, premierà il fronte indipendentista. Nell’ultimo anno sono però successe molte cose, dovute sia all’inasprimento della questione nazionale che al sorgere di nuove opzioni politiche, e, oltre alla contrapposizione sull’indipendenza, altri conflitti si muovono tra e dentro le coalizioni. Innanzitutto c’è stata la rottura di CiU, la coalizione ultradecennale tra i liberali della Cdc e i cattolici nazionalisti dell’Udc. Il partito guidato da Josep Antoni Duran i Lleida ha mal digerito l’accelerazione indipendentista dell’ex alleato e si presenterà con una propria lista e un candidato, coll’intenzione di intercettare i voti del catalanismo moderato ostile ad avventurismi. Un altro accesissimo scontro è quello fra Cdc e Erc per l’egemonia del nazionalismo catalano, provvisoriamente messo da parte col varo della lista comune ma sempre vivo sotto la facciata unitaria. Poi c’è il confronto tra i partiti storici, Psc e Pp, e le nuove formazioni figlie della crisi del sistema dei partiti.
Se i socialisti vedono continuare l’emorragia di voti verso Podemos, e quindi verso la coalizione di cui fa parte, i popolari catalani sembrano addirittura travolti da Ciudadanos, la formazione degli «Indignati di destra» che, secondo i sondaggi, prenderebbe il doppio dei voti del Pp. Questo il quadro disegnato dagli istituti di ricerca che però, oltre alla verifica delle urne (alto è il numero degli indecisi e diversi sondaggisti ritengono che quasi la metà di loro, che potrebbe mobilitarsi, sia per il no alla secessione, mentre i favorevoli sarebbero attorno al 20%), merita qualche altra considerazione.
A partire dai nuovi partiti, Ciudadanos e Podemos. I primi sembrano godere dell’afflusso imparabile dei voti del Pp, Malgrado inciampi e contraddizioni, l’offerta di un voto alternativo a quello popolari sembra solidissima nel gradimento degli elettori. Ciudadanos, nata come formazione di sinistra moderata catalana contraria all’indipendentismo inizialmente rivolta ai delusi socialisti, promossa da una stampa intenzionata a limitare la crescita di Podemos, si è rapidamente imposta come alternativa nazionale allo screditato Pp, ha occupato il nuovo spazio politico e potrebbe essere il secondo partito. Podemos, invece, sembra subire una battuta d’arresto. Nella realtà politica catalana, il non nazionalismo ha frenato i favori di un’opinione pubblica abituata ormai a pensare la politica in termini nazionalistici.
Anche la scelta della sindaca Ada Colau di non schierare la città sul fronte indipendentista, come fatto invece da decine di comuni catalani, è costata qualcosa in termini di gradimento. Una leadership locale poco contundente e, paradossalmente, la stessa debolezza dei socialisti, principale serbatoio elettorale per i viola, contribuiscono alle difficoltà catalane della creatura di Pablo Iglesias. Di contro, proprio l’irruzione di Podemos sulla scena politica ha messo in crisi il monopolio del discorso politico da parte nazionalista, imponendo la questione sociale e un ritorno a una più classica dialettica destra-sinistra che rompesse, non senza difficoltà, la gabbia in cui si è chiusa la politica catalana.
I giochi sono dunque fatti, con la vittoria dell’attuale compagine di governo e la sconfitta non solo della destra ma anche delle sinistre non nazionaliste? Fino a un certo punto. I sondaggi parlano di una maggioranza della coalizione di JxSÍ ma non di una certa maggioranza assoluta. Se la questione nazionale ha dominato il discorso pubblico e i programmi dei partiti, utilissima per la dirigenza nazionalista catalana per attenuare l’eco dell’ondata di scandali che l’ha travolta, questa potrebbe essere messa alla prova dopo il voto. Se non trovasse la maggioranza assoluta, JxSÍ potrebbe formare una maggioranza di governo con la Cup ma il pressing di Podemos e della sinistra potrebbe rendere alla Cup impossibile l’adesione al progetto, sia organicamente che con un appoggio esterno. Come giustificare davanti a un elettorato sì nazionalista ma estremamente sensibile alle questioni sociali l’appoggio a una maggioranza che ha risposto alla crisi con tagli del welfare e privatizzazioni?
Se le elezioni locali hanno sempre un senso particolare, ancor più ciò è valido in Catalogna. Non è questo il terreno per un rilancio del Pp, che vede avvicinarsi le prossime politiche del 25 dicembre con sempre maggiore preoccupazione, né per i socialisti. La Spagna si conferma come uno dei laboratori politici europei più vivaci, quello in cui le offerte politiche alternative conseguenti alla crisi dei partiti si sono presentate da subito non come compagini populiste e testimoniali ma come forze di governo, senza temere di allearsi coi partiti, come il Psoe, che pure hanno duramente criticato e per il cui superamento sono nate. Fornendo strumenti alla cittadinanza e stimolando, inoltre, la necessità per i partiti storici di ricostruirsi una credibilità. A livello nazionale la situazione è diversa. Secondo gli ultimi sondaggi il Psoe sarebbe il primo partito (con neanche il 25% dei voti) e Podemos il terzo, dietro al Pp e davanti a C’s. In un quadro estremamente frammentato che renderà necessaria la formazione di una coalizione di governo. Sia a destra che a sinistra. Ma tre mesi sembrano un futuro lontanissimo, nell’era del cambiamento della politica, e ora la parola sta agli elettori catalani.
(Tratto da Ytali.it)

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