lunedì 24 febbraio 2014

La resistenza catalana

"L’esilio e la resistenza sono intimamente legati. E se oggi ancora esiste la patria è grazie a tutti quelli che, in Catalogna o fuori, non smisero mai di sognarla completa e libera."

23 gennaio. In una giornata come questa, 75 anni fa, usciva dal Palazzo Robert, fuggendo dall’imminente entrata dei fascisti a Barcellona, un bibliobus con alcuni degli scrittori ed intellettuali più importanti della nostra storia contemporanea: Francesc Trabal, Joan Oliver, Mercè Rodoreda, ecc. L’indomani, un camion portava verso l’Empordà (zona catalana al confine con la Francia) Xavier Benguerel e Domènec Guansé, che si sarebbero incontrati con le famiglie di Pompeu Fabra e di Rovira i Virgili un paio di giorni dopo nel paesino di Agullana (vicino a La Jonquera), convertitosi nella capitale culturale e politica della parte di Catalogna non ancora invasa. I fascisti aspettarono fino al 26 di gennaio (era la data della grande vittoria catalana del 1641 dalla montagna di Montjuich, quando il commandante in capo dei catalani, Francesc de Tamarit, spazzò via le truppe spagnole di Filippo IV, commandante dal Marquese de los Vélez).


Dunque, il 26 gennaio nel pomeriggio, i centomila soldati circa delle truppe commandate dal generale Yagüe occuparono via via la città bombardata, esausta, vinta. Tutto era accaduto velocemente dalla sconfitta nella battaglia dell’Ebro. Non restavano più forze. Il 10 febbraio, l’esercito di Franco raggiungeva la linea che separa uno stesso paese (nota del traduttore: si riferisce alla frontiera francese che, ancora oggi, separa la Catalogna). Iniziava per i catalani una notte desolante, oscura come un abisso.

Ho studiato abbastanza in profondità gli anni dell’esilio, soprattutto i primi anni del grande esodo. Ho letto molti articoli che trasudano una nostalgia infinita, una perdita pungente, nelle decine, centinaia di pubblicazioni che furono editate in tutto il mondo. Ho potuto conoscere alcuni esiliati e molti figli della diaspora. Ho ascoltato, infine, di prima mano, come furono vissuti quegli anni nei quali la patria diventò errante: gli anni della II Guerra Mondiale, la speranza di ritornare a casa dopo la vittoria degli alleati, la terribile delusione e disperazione dell’esilio degli anni cinquanta, ecc.

E’ una delle più strane peculiarità catalane: la patria come astrazione, sensa un radicamento fisico, quasi un puro prodotto intellettuale, così lontano dallo “heimat” tedesco. Ho ammirato il coraggio e la dignità di quelli che, come Pompeu Fabra, andavano a morire lontano, abbandonavano un paese per salvare la lingua. Provo un sentimento di perpetuo ringraziamento. Nelle oscure tenebre del fascismo, qualcuno accese un lume per dire al mondo che la Catalogna resisteva. Oggi, quando si alzano delle voci dicendo che tanto, era lo stesso trovarsi da una o dall’altra parte della dittatura, il loro gesto ci redime dalle rinunce di tanti.

E, malgrado tutto, quest’anno che dobbiamo commemorare come non mai i 75 anni della fine della Guerra del Disastro Nazionale, e dell’immensa disfatta a tutti i livelli che suppose per il nostro paese, -per l’ennesimo tentativo di distruggerlo-, in questo anniversario, ripeto, a me mi torna sempre con più forza un’idea: l’epica battaglia della resistenza catalana interna.

Non so come abbiamo fatto a sottostimare una delle grandi epopee dei tempi moderni: come un popolo fu capace di resistere all’etnocidio. I francesi, senza che la loro cultura fosse in pericolo, senza una guerra civile, con una sottomissione umiliante al nemico tedesco, sono stati capaci di reinventare la storia della loro resistenza. Perchè noi non lo abbiamo fatto?

Avevo circa dieci o undici anni alla morte di mio nonno; lui morì pochi mesi dopo Franco. Allora io non sapevo nulla. Adesso so che lui aveva perso una guerra e che io avevo perso una patria. Ricordo il giorno del suo funerale, ricordi da bambino. C’era una britannica serenità in famiglia, aveva avuto una vita piena e potè morire, amato dai suoi, dopo aver visto come si apriva, finalmente, un’opportunità per la democrazia. Non so se fu mio padre oppure mio zio ma, qualcuno andò a casa sua per prendere una senyera (bandiera catalana). La collocarono sopra la bara. Credo che fu la prima bandiera che videro nella chiesa di Santa Coloma de Farners dopo tanti anni.

Non è un dettaglio da poco. Fu il modo di dirci molte cose: che avevamo resistito, che volevamo essere, che il testimone della lotta era passato di mano e continuava. Noi, i figli del franchismo, come soleva chiamarci la scrittrice Montserrat Roig, siamo debitori della generazione che riprese la lotta per una cultura ed una lingua, in condizioni aberranti, amare, indegne. Senza l’impegno e la speranza che ci misero per andare avanti, oggi, semplicemente, non saremmo qui.

L’esilio e la resistenza sono intimamente legati. E se oggi ancora c’è patria è grazie a tutti quelli che, in Catalogna o fuori dalla Catalogna, non smisero mai di sognarla completa e libera. L’indipendenza, che non è altro che un viaggio di ritorno a casa, è anche senza dubbio, un dovere che abbiamo verso tutti loro.

Quim Torra

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